Per chi ha deciso di prendere una propria passione giovanile, come il fumetto o i videogiochi, e farne una professione, parlare di lavoro ha sempre un retrogusto spiacevole. Non necessariamente a causa di grane lavorative, che comunque non mancano: la cosa più complicata spesso è far capire agli altri cosa si fa per campare. Dopo aver risposto alla domanda “E tu, che lavoro fai?” di solito tocca assistere a uno sguardo un po’ sbigottito, preludio di una seconda domanda: “Figo, ma intendevo il tuo lavoro vero”.

L’ingenuità involontaria della risposta tende a scoperchiare un vaso di Pandora, costringe ad affacciarsi su un esistenza vissuta nell’incertezza economica e professionale, spesa nell’attesa di un pagamento in costante ritardo o di una risposta a una proposta di collaborazione da cui dipende la possibilità di permettersi quegli sfizi considerati la normalità da chi passa le canoniche 8 ore in ufficio. Da chi ha un lavoro vero insomma.

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Javi, l’alter ego fumettistico dello spagnolo Alberto Madrigal, un lavoro vero lo trova senza cercarlo già all’inizio della sua graphic novel, insieme a una nuova stabilità economica, la possibilità di andare al cinema due volte a settimana e la fine dell’angoscia davanti al banco frigo del supermercato. Non si tratta nemmeno di un lavoro faticoso, o noioso: lavora in un’azienda che produce videogiochi per Facebook, in uno di quelli uffici moderni con tavoli da ping pong e area ristori, e il suo ruolo è quello di designer, ovvero non deve fare altro che disegnare come faceva prima, solo che questa volta è pagato per farlo. Eppure la trasformazione della propria passione in una mansione meccanica, ripetitiva, e asservita ad altri scopi rispetto all’espressione di sé provoca per contrasto in Javi l’irrefrenabile necessità di tornare a disegnare qualcosa di proprio.

Tranquilli, non sto raccontando troppo. Tutto ciò avviene nelle prime quattro tavole del volume Un lavoro vero, opera prima di Madrigal, edito in questi giorni da Bao. Dopo questo incipit Madrigal riavvolge il nastro per raccontarci come sia arrivato a disegnare quelle quattro tavole che, in un cortocircuito interno, verranno realizzate dal suo alter ego Javi solo sul finire della storia. Nel mezzo c’è l’arrivo solitario di Javi a Berlino, il suo lento acclimatarsi con la città – non per nulla il volume esce nella collana Le città viste dall’alto – e le sue abitudini, i berlinesi che non hanno la cultura dello stare in casa, i coinquilini, gli incontri, i progetti per il festival del fumetto di Angoulême, le giornate di lavoro davanti a un cappuccio, unica ordinazione che si può permettere, accompagnato da un mini-muffin omaggio.

In controluce c’è molto altro. Un lavoro vero racconta se stesso, è doppiamente autobiografico: è sì la storia del suo autore, ma è anche la storia di come l’opera ha preso vita, delle persone che l’hanno condizionata e della necessità di esprimersi che custodisce, appassita quando Javi/Alberto vi dedicavano interamente il loro tempo ed esplosa indomabile quando è stata messa da parte.

E ancora, nella precarietà esistenziale di Javi c’è la fotografia a colori pastello di una generazione di trentenni, aggrappati alla speranza di potersi dedicare a una passione coltivata con fatica e studio per una vita intera mentre la lista della spesa li trascina verso una resa incondizionata, fatta di un lavoro qualsiasi che suoni vero quando lo si racconta, a prescindere da quanto si creda in se stessi. Il tratto tenue e minimalista di Madrigal, accompagnato da colori delicati, ugualmente capaci di scandire uno sbalzo temporale con un semplice cambio di tonalità, non addolcisce il ritratto del fallimento che aspetta molti all’orizzonte, scandito dal ritorno in quel bar dove qualche giorno prima si cercava un buon tavolo per disegnare e ora invece si spera di trovare un impiego dietro il bancone.

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L’aspetto migliore di Un lavoro vero è la totale assenza di intenti pedagogici. Madrigal non vuole insegnare a nessuno quale sia il modo migliore per farcela, come vorrebbero fare molti dei personaggi che compaiono nel racconto, convinti che la propria visione degli eventi sia applicabile universalmente agli altri a prescindere dagli obiettivi. Il coinquilino tedesco e stronzo non fa che sottolineare la necessità di ordine nelle vite degli altri, mentre l’amico fumettista Paolo cerca di dissuadere Javi dal dedicarsi a un solo progetto per volta: non c’è moneta più a buon mercato di un consiglio. Madrigal invece vuole solo raccontarci come lui ce l’abbia fatta fatta, la sua versione della storia fatta di un’irripetibile combinazione di eventi, conversazioni, rassegnazioni e nuove prospettive, trasformati in vignette e spediti via mail a un editore.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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